Identità e genere. Intervista a Mariano Gianola, autore di “Giovanotti Femmenelle e Signurine Masculone”

 

NAPOLI – Mariano Gianola, già autore di diverse favole per bambini che affrontano il tema delle differenze, ha pubblicato l’e-book “Giovanotti Femmenelle e Signurine Masculone. A ognuno la libertà di esprimere la propria identità”, un lavoro di ricerca che affronta la questione degli stereotipi di genere, del bullismo omo-trans-fobico e dei linguaggi attraverso cui è veicolata la discriminazione nei confronti di chi agli stereotipi di genere non si conforma.

In precedenza erano favole per bambini, lo strumento con cui Mariano Gianola provava a sensibilizzare rispetto alle differenze: quelle etniche, quelle razziali, quelle da riferire all’orientamento sessuale e alle questioni di genere. Tra queste ricordiamo “Pluralino e la bellezza delle differenze”; “Trans Cuore. L’amore attraversa i confini”; e la sua ultima “Sole ama Sole”. Tutte da lui scritte e illustrate, gratuitamente scaricabili da internet. Probabilmente oggi è arrivato il momento di parlare ai più grandi: così nasce “Giovanotti Femmenelle e Signurine Masculone. A ognuno la libertà di esprimere la propria identità”. Si tratta infatti di una ricerca condotta su bambini e pre adolescenti, tra gli 8 e i 14 anni di età, di un centro educativo territoriale di Secondigliano, quartiere dell’area nord di Napoli. Un territorio difficile, dove gli utenti del centro educativo raccontano realtà di forte marginalità sociale, culturale ed economica, oltre a essere raggiunti da una cultura veicolante idee stereotipate e ideali omologanti. La ricerca in questione, trattata in chiave etnografica, ha indagato infatti le relazioni che intrattengono i bambini che non si conformano agli ideali stereotipici che si vorrebbero per il proprio genere biologico; il modo in cui vengono relegati all’out-group (esclusione), rispetto a un in-group (inclusione) fatto di maschi; e come i linguaggi e i termini veicolano poi il trattamento nei loro confronti.

Per poter esistere, identificarci, e farlo anche socialmente, abbiamo bisogno di significarci, di significati che attribuiamo e ci vengono attribuiti. Parlare di significati chiama in causa il simbolo. Il simbolico per eccellenza? Il linguaggio. Insomma, hanno un peso rilevante e fondante i termini con cui veniamo appellati, le parole che ci vengono ascritte. Scopriamo così che talvolta, il termine omofobia, sarebbe preferibile sostituirlo con omonegatività, che “oltre a indicare le dimensioni psicologiche e gli stati d’animo legati all’omofobia: l’avversione, la paura, il disagio, e altro ancora, contiene al suo interno anche quelle dimensioni socio-culturali e antropologiche, rappresentate rispettivamente dal pregiudizio e dalla disapprovazione collettiva, frutto dei processi di apprendimento sociale che infuiscono sulla formazione degli atteggiamenti e delle credenze collettive nei confronti delle persone omosessuali”. E scopriamo anche che il termine “Ricchione”, rispetto a quello di “Femmenelle”, vuole avere una carica discriminatoria e offensiva più forte, spesso impiegato anche per insultare coetanei che si conformano agli stereotipi del genere maschile. Apprendiamo anche le bambine, che non sembrano uniformarsi allo stereotipo femminile, vengono trattate con rispetto dai maschietti dell’in-group e accolte in un’interazione giocosa e gruppale a cui “Ricchioni” e “Femmenelle” non hanno accesso. Ma anche che bambini, appellati con i suddetti termini, talvolta provano a uscire dalla spirale dell’esclusione e del bullismo omofobico, attivando un meccanismo per cui la loro attiva presa in giro si riversa sugli altri bambini dell’out-group, quelli che come lui non si conformano allo stereotipo del maschio. C’è da sottolineare però in questo caso la cattiva riuscita di questo meccanismo difensivo.

Questi i temi e le interessanti osservazioni che Mariano Gianola offre con il suo testo. Segnaliamo che l’autore è stato borsista presso il Centro di Ateneo SInAPSi, Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti, presso il quale attualmente continua a collaborare, come anche per le iniziative della Fondazione Genere Identità Cultura. Riguardo la sua ricerca, gli abbiamo rivolto le nostre domande per approfondire alcuni aspetti.

Differenze razziali, etniche, di omogenitorialità e omosessualità. Poi una ricerca su bullismo omofobico e rapporto tra atteggiamenti omofobici e linguaggio. Come  nasce il suo interesse verso questi argomenti?

«La nostra società si configura come uno scenario denso di chiusure nei confronti delle differenze. Esistono, purtroppo ancora oggi, credenze e modi di pensare largamente diffusi del tipo: “Sei napoletano, rubi!”; “Sei immigrato, occupi un posto di lavoro che spetterebbe a un italiano!”; “Sei omosessuale, hai una malattia!”; “Sei disabile, devi solo prendere la pensione perché sei improduttivo!”; “Sei transgender, hai una confusione mentale; non sei normale!”. Mi scuso, davvero, per aver utilizzato frasi forti, e senza aver appellato come “persona” i soggetti prima evidenziati, ma ho scelto esempi effcaci per dimostrare che viviamo in una società legata a pregiudizi obsoleti che non considerano l’altro come una ricchezza. Il mio interesse nei confronti di tali argomenti è finalizzato soprattutto a promuovere una cultura che rispetti le differenze e a far sì che tali stereotipi non vengano appresi dai minori che sono il motore e i ‘creatori’ della società futura.»

Perché per la sua ricerca ha scelto il centro di educativa territoriale di Secondigliano?

«Il centro educativo di Secondigliano è il luogo presso il quale ho lavorato anni fa. I minori che lo frequentano vivono una realtà diffcile e caratterizzata da disagio. Gli stessi inoltre apprendono modelli nei quali l’omologazione rappresenta l’unica strada da ‘dover’ scegliere. Se non ti conformi alle norme sociali condivise sei considerato estraneo, perciò escluso. Purtroppo questi bambini riproducono comportamenti violenti nei confronti dei loro pari, i cui modi di essere e di esprimersi si discostano da ciò che è socialmente richiesto. I minori che hanno frequentato il centro educativo nel momento in cui ho compiuto lo studio, sono quindi soggetti attivi della discriminazione.»

La differenza riscontrata durante la ricerca tra i termini “Femmenelle” e “Ricchione”?

«I termini “Femmenelle” e “Ricchione”, per i bambini del centro educativo, hanno essenzialmente lo stesso signifcato: una maschio femminilizzato, omosessuale, che sente di essere una donna. La differenza la si ritrova invece nell’utilizzo di queste parole: “Femmenelle” è utilizzato quando si vuole creare e/o mantenere la ‘distanza’ con un compagno, per esempio: “Tu sei Femmenelle! Non sei come noi!”. Mentre la parola “Ricchione” è usata per offendere e rimarcare un’identità considerata fortemente riprovevole: per esempio: “Sei Ricchione, vergognati! Non puoi giocare con noi perché sei malato”. Ma spesso il termine “Ricchione” viene utilizzato anche per offendere qualcuno che non è identificato con questa parola. La frase che i bambini hanno riprodotto più spesso è del tipo: “Chillu ricchione e patete!”, tradotto dal napoletano significa “Quel ricchione di tuo padre!”.»

Scrivendo riguardo lo stress cronico che interessa le persone, le cui differenze sono oggetto di stigma, si riferisce al termine “omonegatività”. Perché?

«Il termine “omofobia”, e per estensione anche “transfobia”, contiene la radice “fobia”. Indica la paura nei confronti delle persone omosessuali e l’avversione che una persona gay o lesbica può provare nei confronti di sé stessa, a causa del proprio orientamento affettivo-sessuale. Questo termine si è rivelato inadeguato, e con il tempo è stato sostituito con quello di “omonegatività”, concetto che indica non solo la paura e l’avversione prima citate, ma altresì le dimensioni culturalmente interiorizzate e/o apprese all’interno di un determinato contesto sociale legate all’omosessualità, come a esempio il pregiudizio e gli atteggiamenti collettivi.
Nonostante i termini spesso siano utilizzati come sinonimi, ritengo che sia più corretto utilizzare “omonegatività”, proprio per indicare la società con i suoi valori, con la struttura atteggiamenti, le percezioni, i sentimenti e le credenze negative nei confronti di determinate persone che appartengono a una identità ben specifica. Per tali motivi, preferisco parlare anche di “transnegatività” più che di “transfobia”. Ritengo però che, a prescindere dalla correttezza del termine, l’obiettivo preminente sia quello di prevenire e combattere le discriminazioni connesse agli orientamenti sessuali e alle identità di genere.»

Dal suo studio emerge che i termini stabiliscono gerarchie, reciproci status, appartenenza all’in-group o all’out-group. Quali sono le conseguenze per un bambino additato?

«L’osservazione del comportamento non conforme agli stereotipi sociali, nel nostro caso quelli che stabiliscono come si comporta e agisce un maschio, genera la percezione di un “discostamento”, al quale spesso si associa un’etichetta per indicarlo. Tale etichetta assegnata ai bambini chiamati “Femmenelle” e “Ricchione” è considerata negativa e diviene l’espressione dello stigma del quale sono vittime. Pertanto questi bambini sono identificati come ‘diversi’ dagli altri compagni, e per questo trattati in maniera non egualitaria. Questo trattamento differente genera esclusione, distanza nelle relazioni e stabilisce uno status di inferiorità nei confronti del ‘non conforme’. Conseguenze di ciò, per i bambini chiamati “Femmenelle” e “Ricchione”, sono l’esclusione, la prevaricazione e soprattutto la percezione che hanno di sé come di individui ‘sbagliati’. Questi termini contribuiscono a creare una realtà totalizzante piena di stress, disagi e sofferenze, che accompagna i bambini discriminati in ogni momento della loro vita sociale. Chi vorrebbe non essere riconosciuto per quello che sente di essere? Chi desidererebbe essere messo al margine perché si esprime in un altro modo, diverso da quello richiesto? Proviamo a domandarcelo e a immaginare quando da bambini cercavamo di fare amicizia. Proviamo soprattutto a metterci nei panni di un bambino.»

Perché le bambine “Masculone” ottengono un’inclusione sociale privilegiata tra i bambini maschi?

«Nel contesto nel quale si è svolta la ricerca, ma non solo in tale contesto, prevale un assetto ideologico nel quale è presente una cultura sessista, genderista ed etero-normativa. I bambini quindi apprendono determinate norme sociali e valori per i quali il maschio, l’uomo, è considerato in posizione di preminenza, mentre la femmina, la donna, in una posizione di subalternità. L’atteggiamento negativo quindi matura nei confronti della mascolinità quando questa attraversa il suo stereotipo e si declina verso il femminile.
Quando invece il femminile assume nuances maschili, viene considerato positivamente, probabilmente proprio a causa degli aspetti di forza e superiorità che vengono associati alla mascolinità. Le osservazioni delle dinamiche relazionali tra i minori conferma quindi che, a essere discriminati, sono i ragazzini le cui espressioni identitarie si declinano al femminile. Questo credo fermamente sia un dato attendibile. L’ipotesi invece che la mancata discriminazione delle bambine sia legata al fatto che alle stesse vengano riconosciute caratteristiche di supremazia e di forza associate alla mascolinità, è plausibile, ma va ulteriormente approfondita.»

Condivide con noi un episodio vissuto al centro educativo?

«Un episodio che mi è rimasto particolarmente impresso è legato a un bambino, che purtroppo è stato costretto a snaturare la propria identità, il proprio modo di essere e di giocare. Filippo (nome non reale – ndr), è un bambino di circa 9 anni, continuamente soggetto a episodi di bullismo, escluso da tutti. Il papà un giorno chiese di poter parlare con gli operatori del centro perché preoccupato del fatto che al fglio non piaceva il gioco del calcio. Tale preoccupazione non era associata al fatto che il bambino, non giocando a calcio, non si relazionava con i propri compagni, bensì al fatto che Filippo non praticava uno sport tipicamente maschile. Fu spiegato al genitore che il gioco deve rappresentare la libera espressione di un bambino e che non era un problema o un ‘dramma’ se un maschietto non desidera giocare con giochi stereotipicamente considerati come maschili. Purtroppo non fu possibile convincere quel padre, che credendo di fare il suo bene allontanò Filippo, insieme a suo fratello, dal centro educativo, iscrivendolo a una scuola di calcetto. Ma Filippo non amava il pallone e non capiva nemmeno il perché della decisione del papà. Non solo non gli piaceva il calcio, ma aveva diffcoltà a interagire con i bambini maschi e scappava ogni qualvolta era coinvolto in giochi nei quali era previsto un contatto fsico.
Mi sono domandato diverse volte se essere costretto a praticare tale sport non gli abbia provocato maggiore stress, in quanto non solo è stato allontanato da un contesto a lui familiare, ma è stato altresì inserito all’interno di un percorso ludico a lui non gradito, costretto a confrontarsi con tutte le sue diffcoltà legate al praticare uno sport nel quale l’impatto fsico è una caratteristica fondamentale. La mia esperienza sul campo mi ha portato a osservare come le dinamiche sociali che ho rilevato siano quotidiane ed evidenti, purtroppo traccia della condizione di vita di bambini, colpevolizzati soprattutto perché manifestano un’identità che attraversa il “binarismo di genere”».

L’e-book “Giovanotti Femmenelle e Signurine Masculone” è scaricabile gratuitamente dal sito del Centro di Ateneo SInAPSi e dal sito della Fondazione Genere Identità Cultura.

Camilla Esposito

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