Solidarietà. Far fronte all’emergenza sociale in carcere

POTENZA – Ha preso il via il 10 agosto 2016 il progetto “Non solo parole”, nato dalla collaborazione tra la casa circondariale “A.Santoro” di Potenza e l’associazione no profit “Consolidal”, che persegue scopi di solidarietà sociale, e che ha accolto con entusiasmo l’invito dell’amministrazione carceraria a collaborare su progetti mirati a un miglioramento della qualità della vita detentiva.

Sono due i progetti attivati nella struttura, di durata trimestrale ma con possibilità di estensione, articolati in incontri settimanali fissati sulla base delle esigenze interne e di quelle delle operatrici esterne: la psicologa Antonella Coviello e la mediatrice relazionale Adriana D’Ambrosio, accomunate dalla loro esperienza di educatrici in comunità. A loro il compito di far emergere, attraverso forme di aggregazione quali giochi di ruolo e artiterapie integrate, il disagio esistenziale che spesso nelle carceri sfocia in una rinuncia alla vita.

E’ fondamentale, in contesti coatti, la promozione di un clima che possa rispondere ai bisogni di sostegno morale espressi all’interno delle mura carcerarie. Di fondamentale importanza è la creazione di un gruppo di Auto Mutuo Aiuto (A.M.A), volto a creare un ambiente disteso che favorisca l’espressione adeguata e corretta dei bisogni di ciascuno, attraverso un processo di problem solving. Il progetto è rivolto a un numero di circa dieci persone, scelte dai responsabili della casa circondariale in base a una mappatura dei soggetti e dei loro comportamenti collettivi, al fine di garantire un adeguato supporto ai partecipanti in un lavoro di fronteggiamento dello stress. Obiettivo ultimo dell’iniziativa è favorire un clima di coesione di gruppo e una maggiore possibilità di mediazione di conflitti nelle relazioni interpersonali.

L’iniziativa, rivolta a detenuti per reati giudiziari e penali, è stata accolta con entusiasmo anche dagli interessati, i quali hanno aderito volontariamente al laboratorio appena l’avviso è stato esposto nella bacheca informativa: il progetto infatti ha riscosso un numero di candidature maggiore rispetto ai dieci posti iniziali. A muovere molti di essi è stata la curiosità, che è riuscita a vincere anche le iniziali remore in virtù della prospettiva di trarre giovamento dall’esperienza.

I detenuti, la cui età media si aggira attorno ai trent’anni, provengono da ambienti diversi, ma si sono dimostrati sin da subito ben disposti e collaborativi. «Ci siamo ben presto accorte che il percorso per raggiungere un vero auto mutuo aiuto, dice una delle operatrici, è più lungo e tortuoso di quanto potesse sembrare all’inizio, perché ciascuno dei ragazzi porta con sé una serie di resistenze culturali e soprattutto emotive date dal bagaglio esperienziale, ma il loro atteggiamento ci fa ben sperare.».

Alla fine dell’esperienza, che prevede anche un corso di inglese tenuto dalla professoressa Paola Amato, i detenuti saranno chiamati a una raccolta esperienziale sul significato dato al progetto, al fine di individuare possibili condizioni di prolungamento temporale dello stesso e di vagliarne la ripetibilità.

Perché scegliere il carcere per questa iniziativa?

«Se è vero che le associazioni di volontariato si muovono in direzione dei bisogni sociali, la casa circondariale era da considerare non solo come la più papabile, ma anche la più prioritaria delle realtà bisognose di intervento», questa la risposta del presidente dell’Associazione “Consolidal”, Pierpaolo Pergola, che ha indicato il carcere come luogo in cui c’è bisogno di maggior recupero. La decisione infatti, in osservanza con le direttive del G.O.T (Gruppo Osservazione e Trattamento, in ambito carcerario), si presenta come un tentativo di risposta all’aumento dei tassi di suicidio nelle carceri nei mesi estivi, la cui frequenza è diciannove volte maggiore rispetto al tasso di suicidi tra persone libere e il cui tasso, in valori medi, è superiore anche a quello dei suicidi in ambienti detentivi statunitensi: secondo dati aggiornati al 18 agosto 2016, in sedici anni sono state 910 le persone in Italia che si sono tolte la vita in un penitenziario, spesso persone vicine al termine della pena a causa della mancanza di una prospettiva di futuro impiego o di affrancazione dalla propria fedina penale. La misura del disagio può essere colta anche attraverso la decisione del detenuto di rinunciare alla vita, in correlazione alla consapevolezza di andare incontro, in caso di intervento del personale interno, a provvedimenti disciplinari quali richiamo e isolamento, e soprattutto alla perdita dello sconto di pena: nonostante infatti il suicidio non sia un reato penalmente punibile, l’autolesionismo, così come i tentativi di porre fine alla propria vita, violano l’Articolo 77 del regolamento penitenziario, che prevede pene in caso di “Negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera”.

«Molto spesso, quando si parla di volontariato o si fa del volontariato, è più semplice pensarlo rivolto a un anziano, a un disabile oppure a un malato oncologico, piuttosto che a un detenuto, spiega la mediatrice relazionale Adriana D’Ambrosio, perché ciò che s’innesca è il pregiudizio, spesso inconscio, che una malattia sia cosa imprevedibile e imponderabile, una condizione detentiva invece la si è cercata. Addirittura a volte si aiuta un anziano, pensando che prima o poi tocca a tutti diventarlo, e sperando che qualcuno ci aiuti in futuro. A tal proposito mi rifarei al pensiero di un grande pedagogista e filosofo quale Rousseau, convinto che ogni uomo nasca buono e che diventi malvagio solo a contatto con la società. A mio avviso nessuno di noi è immune da alcuna situazione. Ricordare questo porta il volontariato a diventare un’esperienza gratuita in senso lato e soprattutto scevra da qualsiasi forma di pregiudizio.»

By Zaira Magro

Leave a comment