Libri. Staid invita a una riflessione sul concetto “abitare”

MILANO – Lunedì 12 marzo alla Cascina Torchiera senz’acqua di Milano, l’antropologo Andrea Staid, docente presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, ha presentato il suo ultimo lavoro dal titolo “Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente”, edizione Milieu.

L’intervento dell’autore è iniziato su un ragionamento antropologico sul cosa rappresenti “la casa” e “l’abitare”, che oggi coincide col chiudersi in un luogo. Però l’etimologia del termine “abitare” designa una relazione con le abitudini, con gli “abitus”, e ha a che fare con l’essere parte del territorio, il che implica uno spettro di azioni molto più ampio che il rinchiudersi dentro uno spazio. É dunque a partire da questa riflessione che è iniziata la ricerca dell’autore sull’abitare illegale, un tema per Staid provocatorio, in quanto “abitare” e “illegale” sono per lui due parole che non dovrebbero stare assieme, perché di per sé l’abitare illegale non esiste, finché non si lega al concetto di proprietà privata, per cui la casa diviene merce. Staid al riguardo si è chiesto: “quando l’uomo ha smesso di costruirsi la casa, e quando la casa è divenuta una merce?”.

Con la rivoluzione industriale è cambiato drasticamente il concetto di casa, di abitare, e dunque di conseguenza anche il modo di costruire le città. Da quel momento storico si interrompe la trasmissione dei saperi alle generazioni successive riguardo la capacità del sapersi auto-costruire la casa, un aspetto questo che ci ha differenziato dalle popolazioni indigene, che si accomunano nel modo di intendere la casa nonostante provengano da etnie diverse e non abbiano contatti a livello geografico: un Rom del villaggio legale in zona Chiesa Rossa a Milano ha spiegato che il loro concetto di casa è strettamente legato alla natura, al concetto di libertà, dal non poter pensare di vivere in palazzi; la comunità infatti si incontra fuori, la socialità avviene negli spazi aperti, ed è un modo d’intendere l’abitare molto diverso dal nostro, non compreso da quelle parti politiche che pur pensando di operare nel bene, quando forzano i Rom a lasciare i loro villaggi per vivere nelle case popolari, in realtà stanno minacciando il loro diritto al vivere secondo le loro necessità. Ma Staid si è chiesto ancora: “C’è una casa giusta? Il concetto di casa è totalmente relativo ed è legato ad istanze culturali”.

Un altro tema importante nella riflessione dell’autore ha riguardato la “sicurezza”, una nozione che nei popoli della Mongolia non riguarda la costruzione di porte blindate o di cancelli, o telecamere, o militari per le strade; Anzi, chiudersi in casa tenendosi al di fuori della comunità significa per loro l’esatto opposto del concetto di sicurezza. Per queste comunità vernacolari la sicurezza risiede infatti nel conoscersi, nel tenere le porte aperte cosicché si ci possa aiutare se in quella casa esiste un problema. Oppure riguardo le telecamere, queste non fermano il crimine, semplicemente lo filmano per poi reprimerlo: la società occidentale non crea coesione comunitaria al fine di evitare gli atti criminosi.

Il libro è un ventaglio aperto di esempi più disparati dell’abitare illegale: dalle occupazioni di edifici nel centro città di Barcellona per contrastare la gentrificazione, alle case sugli alberi in California, fino alla ricostruzione di spazi abitativi nelle zone colpite da terremoti nel nostro paese, nonché una riflessione sul fatto che in Europa ci siano 54 milioni di abbaraccati. Scopo del testo è quindi suscitare una riflessione profonda sul concetto di casa e di abitare in Occidente.

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