Libri. Lavoro e sfruttamento tra le pagine di Marta Fana

NAPOLI – “Non è lavoro, è sfruttamento”, è la denuncia lanciata dall’omonimo libro di Marta Fana, edito Laterza, presentato venerdì 13 aprile nei locali dello spazio libreria “Laterzagorà”, curato dall’associazione “A Voce Alta”. L’incontro ha raccolto gli interventi degli ospiti e della platea intorno a una delle questioni più calde degli ultimi anni, quella del lavoro.
La disgregazione e l’impoverimento della classe lavoratrice italiana sono l’attuale risultato di un processo che, tra frammentazione produttiva, flessibilità e austerità, sta attaccando e scardinando i diritti dei lavoratori. In un progetto editoriale che non esita a puntare il dito contro chi sfrutta il degradato panorama del lavoro contemporaneo, l’economista Marta Fana ha raccolto testimonianze sulle diverse realtà di lavoratori schiacciati dal sistema.

Giunto alla settima ristampa in sei mesi, il libro “Non è lavoro, è sfruttamento” offre numerose occasioni di riflessione e dibattito, e in questo clima propositivo si è svolta la presentazione che ha unito lavoratori, studiosi e studenti di tutte le età. Ha aperto la discussione il prof. Enrico Pugliese, sociologo del lavoro, che ha esordito argomentando il tema della destrutturazione del lavoro nel cambiamento della natura stessa dell’economia, affermando che “le nuove teorie economiche tendono a giustificare le iniezioni di flessibilità e precarietà nel lavoro”. È il presente del post-fordismo, che dagli anni ’90 ha assistito al susseguirsi di politiche dell’occupazione precaria culminate nel Jobs Act.

Il prof. Paolo Frascani, storico dell’età contemporanea, ha continuato affermando che “il libro di Marta Fana è un pugno nello stomaco, che dà un senso all’attuale realtà del lavoro”. Si tratta anche, secondo lo storico, di una chiave di lettura per comprendere il voto italiano del 4 marzo, in cui la rottura e la protesta si sono registrate maggiormente nel Meridione, più colpito dalla crisi occupazionale. Frascani ha inoltre ricordato la necessità di parlare criticamente del lavoro e di farlo utilizzando la memoria storica.

Antonio Di Luca, operaio Fiat di Pomigliano e delegato FIOM, ha portato l’importante testimonianza della vita in fabbrica declinata al caso particolare dello stabilimento di Pomigliano. Da quando Marchionne lo definì “la pecora nera dell’industria italiana”, si affermò l’egemone modello culturale che imponeva e impone ritmi di lavoro infernali. Dal 1989, anno in cui Pomigliano era una comunità solidale e compatta, si è andati incontro a un ripiegamento individualistico che ha frammentato e indebolito la classe operaia. Di Luca ha concluso la sua disamina affermando che “quando regrediscono i diritti nel lavoro, regredisce l’intera società”.

Marta Fana, autrice del libro, ha raccontato la sua esperienza durante la stesura del volume, aggiungendo che in Italia si parla poco e male del lavoro, associandolo troppo spesso all’idea di “problema”. Il suo intervento ha toccato i punti fondamentali affrontati nel libro: la progressiva privatizzazione del welfare; il predominio della concezione neoliberista dell’economia; e i casi dell’alternanza scuola-lavoro, del lavoro a cottimo, a chiamata e gratuito. Al termine della presentazione abbiamo avvicinato Marta Fana per l’intervista.

Come è nata l’idea del libro?

«L’idea sostanzialmente è nata dall’editore Laterza, che mi ha contattata anni fa per scrivere un saggio sulle trasformazioni del mondo del lavoro. Dopo la mia lettera a Poletti ci siamo risentiti ed è maturata l’idea di non scrivere un saggio teorico, ma di parlare alla mia generazione come faccio sui giornali, quindi anche parlando della vita, delle storie della gente, dei lavoratori che man mano conoscevo nel corso dei dibattiti».

Quale di queste storie l’ha colpita di più?

«Non mi piace fare una classifica dello sfruttamento della precarietà, ma tra tante c’è stata una che rasenta la barbarie: la storia di una ragazza, Chiara, che faceva la cassiera con un contratto a chiamata in un ipermercato di Mantova. Lei aveva dei turni di circa 10 ore, con solo una pausa di un’ora a pranzo, e alla cassa non potevano né sedersi né avere una bottiglietta d’acqua per bere. Quando chiamavano il cambio per andare in bagno, lo ottenevano dopo molto tempo e a fine turno erano tenute pulire i bagni pur facendo le cassiere. Una delle sue colleghe ebbe un’infezione urinaria e la licenziarono perché aveva bisogno della malattia che non le volevano retribuire».

Quali gli effetti futuri sui giovani coinvolti nell’alternanza scuola-lavoro?

«Saranno dei giovani cresciuti con l’idea che bisogna accettare tutto ciò che accade sui luoghi di lavoro, in primo luogo per quanto riguarda la retribuzione, perché alternanza scuola-lavoro obbliga al lavoro gratuito. Si abitueranno a non avere nulla in cambio per il loro lavoro, che è comunque fatica, ma soprattutto avranno un disciplinamento contro l’alzare la testa, fare le domande, opporsi a delle cose non giuste come per esempio entrare in un silos quando le condizioni di sicurezza non sono adeguate. Tutto questo per paura e ricatto di esser poi licenziati».

Come proteggersi dal ricatto del lavoro gratuito?

«Dal punto di vista individuale, per una persona che non ha alternative concrete è difficilissimo, perché da sola non ha dove andare. Io dico sempre di accettare più o meno ciò che ci viene offerto, ma che bisogna anche organizzarci insieme ad altri che vivono le stesse situazioni. Siamo la maggioranza della società a subire queste condizioni, quindi insieme le grandi vertenze, ma anche le grandi idee politiche, vengono poi rivendicate. Quando si lotta insieme è molto più facile vincere, da soli si è sempre sconfitti».

Noemi Orabona

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