Fotografia. A Roma gli scatti dei “Siriani in transito: dalla Siria all’Europa in cerca d’asilo”

ROMA – In data 23 febbraio, presso la Biblioteca Europa di Via Savoia 15 a Roma, si è tenuta la presentazione della mostra fotografica “Siriani in transito: dalla Siria all’Europa in cerca d’asilo”, presentata dall’associazione di volontariato “Piuculture”. La mostra, che resterà visitabile fino al 14 aprile, è nata da un progetto dell’associazione interculturale Nur – A spotlight on migrant voices a.p.s., curata da Marta Mantegazza, Anna Pasotti, Alessandra Pezza e con le fotografie di Anna Ruggeri, proponendo un punto di vista nuovo sui processi di accoglienza migranti e inclusione in Europa. Attraverso un lavoro di documentazione per immagini, il progetto illustra il percorso itinerante intrapreso dai profughi di guerra siriani, protagonisti del conflitto che ha avuto inizio nel marzo 2011: una lotta armata nata inizialmente con l’obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del partito socialista Arabo Ba’th.

Nel corso del conflitto, nell’autunno del 2013, nella stazione centrale di Milano sono giunti numerosi profughi siriani e il Comune ha messo in campo una rete straordinaria di accoglienza coinvolgendo la Polizia Locale, l’ASL, La Croce Rossa, le organizzazioni del Terzo Settore, e usufruendo del supporto di centinaia di volontari e cittadini: “I siriani arrivavano a Milano e dopo 3 giorni ripartivano, perchè la loro meta era il nord Europa. Si trattava effettivamente di un transito da un luogo a un altro e nell’arco neanche di un anno sono arrivate circa 15.000 persone. C’era chi viaggiava in treno, chi in pullmam, chi si affidava ai trafficanti per raggiungere il nord dell’Europa, i quali però richiedevano somme di denaro abbastanza alte senza garantire l’esito del viaggio.”, questo è ciò che racconta Marta Mantegazza, una delle ideatrici e curatrici della mostra e che ha svolto attività di volontariato all’interno del progetto “Emergenza Minori Siriani”, per i bambini temporaneamente presenti in uno dei centri adibiti all’accoglienza dei profughi siriani. Al riguardo le abbiamo rivolto alcune domande.

Come è nata l’idea del progetto?

«Tutto inizia dall’incontro avvenuto alla Facoltà di mediazione linguistica e culturale a Milano con Anna Pasotti e Alessandra Pezza per studiare l’arabo e, al fine di imparare questa lingua, siamo tutte state in Siria tra il 2007 e il 2010, quindi prima dell’inizio del conflitto».

Com’era la Siria prima che avesse inizio la lotta armata?

«Un paese bellissimo a livello di patrimonio artistico e culturale. Si presentava come un Paese benestante con altissimo livello di istruzione, nonostante fosse presente ovviamente anche la parte povera. Si percepiva però un clima di dittatura, anche solo dalla faccia di Assad in gigantografia ovunque. Abbiamo quindi iniziato a seguire gli sviluppi storici del paese e ognuna di noi ha seguito un percorso diverso. A un certo punto poi, in quanto noi anche mediatrici, i nostri interessi si sono uniti quando abbiamo iniziato a sentire dell’arrivo dei siriani che dormivano per terra nella stazione di Milano nell’autunno del 2013».

Cosa avete fatto?

«Ci siamo chieste cosa avessimo potuto fare per aiutare queste persone. All’inizio siamo andate nella stazione centrale e poi nei centri di accoglienza temporanea che il Comune aveva aperto per fare volontariato. C’era tutto un grande caos perché non c’era una struttura. Siamo rimaste all’interno dei centri con fondazione “L’albero della vita”, che si occupa di bambini. La situazione era difficile in quanto i bambini non avevano una dimensione sociale, ma solo familiare, quindi inizialmente era problematico riuscire a far rispettare le regole. Abbiamo avuto anche modo però di ascoltare tante storie.»

Una l’ha particolarmente colpita?

«Nel dicembre del 2013 è arrivata nel centro di accoglienza una famiglia molto numerosa. Era la famiglia di Nur, una bimba di 7 anni il cui nome in arabo vuol dire luce. Era arrivata con il papà, la mamma, il fratellino, la nonna, la seconda moglie del papà, la quale era incinta, e con altri due figli e gli zii. Dal momento in cui i migranti avevano bisogno di parecchi soldi per partire, avevano aspettato lì un bel po’ di tempo. Quando sono riusciti finalmente a ottenere la somma necessaria per andare in Svezia, al momento della partenza si sono accorti che non vi era abbastanza spazio in macchina per tutti e il padre così ha lasciato la piccola Nur nel centro. E’ rimasta lì per altri 3 mesi, ma è una permanenza difficile perchè non fa in tempo a fare amicizia perché tutti ripartono dopo pochi giorni. Storie come quelle di Nur però ne sono tante.»

Quindi nasce il progetto comune?

«Pensavamo fosse importante rivolgerci ai cittadini europei facendo qualcosa a più lungo termine e a più lungo raggio, per portare informazione su quali sono le conseguenze, spesso ignorate, di leggi europee a proposito dell’immigrazione. Questo è quello che abbiamo cercato di fare: raccontare le cose meno dette a livello mediatico, cercando di costruire il viaggio dei siriani e arrivare ai cittadini europei tramite l’immagine. Abbiamo quindi ripercorso il loro viaggio. I soggetti esposti nelle fotografie hanno posato in completa libertà, non abbiamo voluto imporre niente.»

Cosa pensa delle leggi europee sull’immigrazione?

«Si è fermi, nel senso che il regolamento di Dublino che impedisce di presentare una domanda di asilo in più di uno Stato membro e prevede che la domanda la esamini lo Stato dove il richiedente ha fatto ingresso nell’Unione, fa sì che non ci possano essere canali umanitari. Per i siriani questo è risultato difficoltoso, perché la Svezia ha dichiarato che apriva i suoi confini e che dava asilo a tutti, solo che era complicato per i siriani arrivare fino a lì. Non dando il visto il volo era impossibile prenderlo. All’inizio l’Italia prendeva le impronte ai siriani, ma quando ha visto che ne erano arrivati tantissimi ha smesso di farlo e in questo modo si è perso il controllo della situazione. L’Italia e la Grecia hanno fatto parecchia pressione a livello europeo e da lì è nata l’idea degli hot spot, ovvero dei punti di smistamento su tutta l’Europa. I migranti arrivano in Italia e Grecia ma poi vengono smistati. È un sistema che però non funziona, perché oggi solo un decimo è stato distribuito.»

Cosa andrebbe cambiato?

«Ripensare il concetto del diritto di emigrare per ricrearsi una vita. La desertificazione non rientra tra le cause dalla quale puoi scappare dal tuo Paese, così come anche la povertà. Le categorie aiutano a livello organizzativo, ma non devono essere così vincolanti. Una cosa che emerge dal libro di Melania Mazzucco “Io sono con te. Storia di Brigitte”, edito da Einaudi, (Presentato lo stesso giorno dell’inaugurazione della mostra – ndr), che mi è piaciuto tantissimo, è il ragionamento sul fatto che molti ragazzi non hanno delle storie tali da effettivamente poter ottenere la protezione, ma col diniego puoi far ricorso. Il ricorso intanto costa un sacco di soldi allo Stato Italiano e se anche si arriva al diniego definitivo, non c’è quasi mai l’accompagnamento alle frontiere. Quindi questi ragazzi rimangono qui senza far nulla. Sarebbe importante invece che loro lavorassero e contribuissero nel territorio che li ospita.»

Della politica isolazionista del presidente americano Trump cosa ne pensa?

«Sulle politiche migratorie degli Stati Uniti la situazione è bollente e prima o poi i migranti credo insorgeranno. C’è già stato negli Stati Uniti uno sciopero, organizzato dagli immigrati il primo maggio del 2006, per chiedere la legalizzazione della loro posizione lavorativa e civile. Fu un giorno di tilt per il mercato americano ed erano riusciti ad avere una grandissima adesione, per cui se l’hanno già fatto secondo me possono rifarlo.»

Antonella Izzo

Comments

Leave a comment