Cinema. Bagya D. Lankapura tra due culture

NAPOLI – Domenica 2 settembre, nella Sala Pasinetti del Palazzo del Cinema di Venezia, il regista napoletano Bagya D. Lankapura ha ricevuto il “Premio Mutti – AMM 2018” rivolto ai registi migranti residenti in Italia.

Classe ’96, nato a Napoli da genitori srilankesi, Bagya D. Lankapura è già noto al pubblico italiano nelle vesti di attore, avendo recitato in diverse fiction quali “I fantasmi di Portopalo”, con Beppe Fiorello; e “Fuoriclasse 3”. È, però, in qualità di regista che ha recentemente raggiunto un importante obiettivo: la vittoria del “Premio Mutti – AMM 2018”, conferitogli nel corso della 75a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Al riguardo, lo abbiamo raggiunto per rivolgergli le nostre domande.

Si sente più attore o regista?

«Assolutamente regista. Il mio percorso è stato abbastanza strano. Da piccolo volevo fare il musicista, ma mia madre era contraria, così mi dedicai alla fotografia. Intanto, un amico di mio padre, regista di un collettivo teatrale amatoriale singalese qui a Napoli, stava scrivendo uno spettacolo e aveva bisogno di un ragazzo giovane. Non amavo recitare, ma spronato da mio padre presi parte allo spettacolo. Un giorno, durante le prove si presentò l’assistente di produzione di un film di Edoardo De Angelis, alla ricerca di un ragazzo diciottenne con fattezze indiane, e mi scelsero. Partì così quella che mia madre chiamerebbe la mia “carriera da attore”, con il film “Vieni a vivere a Napoli”. Sul set incontrai la mia attuale agente, Marianna de Martino, e da lì presi parte ad altri progetti come “Fuoriclasse 3”, “I fantasmi di Portopalo” e una figurazione speciale in un film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Contemporaneamente frequentavo il liceo e, con alcuni amici, iniziammo a girare video amatoriali. Poi, dopo un corso di regia all’ASCI Scuola di Cinema e lavorando su vari set si è creata una rete di contatti.»

Ci racconta l’esperienza a Venezia?

«Tengo a ringraziare Suranga D. Katugampla, regista migrante veronese che pubblicò lo scorso anno il suo primo film “Per un figlio”. Io mi occupai della distribuzione a Napoli e, in seguito, collaborai con lui per un cortometraggio (“The delivery – La consegna”, 2017 – ndr). In quel periodo fu indetto il bando della cineteca di Bologna per il “Premio Mutti – AMM” rivolto ai registi migranti e decisi di parteciparvi, inviando il soggetto e la sceneggiatura di un corto che avevo scritto: “La voliera”. La trama ruota attorno al rapporto conflittuale tra un padre singalese emigrato a Napoli e sua figlia nata qui; due mondi che si scontrano perché lei vuole sentirsi Italiana e lui vuole crescerla in maniera tradizionale.»

Nel corto ha raccontato sue esperienze personali?

«Principalmente ho fatto un’analisi su quanto la migrazione dei miei genitori abbia influenzato la mia vita. Sono nato qui a Napoli, quindi anche io ho vissuto quella dicotomia per cui mi sento Italiano e mi sento Srilankese, ma in realtà sono una via di mezzo. Parte, poi, da una vicenda autobiografica quasi diretta: ho frequentato per due anni una ragazza singalese nata a Napoli, come me, e suo padre ha fatto di tutto per ostacolarci; lei poi si è fidanzata con un ragazzo italiano e il suo rapporto col padre si è complicato ancora di più. Quindi sono partito scrivendo di lei, poi ho capito di dover cambiare il punto di vista e il personaggio principale è diventato il padre, perché credo si apra a più spunti di riflessione.»

Progetti per il futuro?

«Con un mio carissimo amico, Riccardo Piscopo, stiamo lavorando da cinque anni all’apertura di una casa di produzione cinematografica indipendente “56K”: il primo video musicale girato da noi è stato “Don’t stress” dei Batà Ngoma. Inoltre sto lavorando a un lungometraggio scritto qualche anno fa, ma in fase di revisione perché lo elaborai a 18 anni e, da allora, è in continua evoluzione.»

Rosina Musella

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