Fotoreportage dal Sannio. A lavoro solo i privati (Parte 1 di 2)

SOLOPACA – Come pubblicato in questo precedente articolo, Ferdinando Palmers dell’associazione naturalistica Oceanus ci ha accennato alle vere cause del disastro avvenuto a metà ottobre nel Sannio, che non sarebbero da individuare, come i media ci fanno credere, esclusivamente nell’esondazione del fiume Calore, causata dalle fortissime piogge che si sono protratte per più di una settimana. Dunque per verificare le parole di Palmers ci siamo recati con lui sul posto per realizzare un fotoreportage.

Siamo partiti da Napoli alle sette del mattino del 4 novembre, il sole era ancora basso all’orizzonte. Abbiamo percorso l’autostrada Napoli-Bari: dopo la valle di Maddaloni l’autostrada passa attraverso i monti, poi lungo variopinti vitigni e uliveti. Nel giro di un’oretta abbiamo raggiunto Solopaca, in provincia di Benevento, cittadina famosa per il suo vino bianco. Qui, lungo la Via Bebiana, ci siamo fermati: a sinistra la Cantina di Solopaca, a destra i campi oltre i quali, in lontananza, si erge il gruppo montuoso del Taburno.

Gli imponenti stabilimenti della Cantina Solopaca sono stati tra quelli più colpiti dall’alluvione: un mare di fango e detriti ha invaso i locali, gli impianti e i depositi. Ma i lavoratori non si sono persi d’animo e hanno ripulito tutto, mentre l’azienda ha pensato di trarre un vantaggio dal dramma, pubblicizzando i propri prodotti in maniera costruttiva.

Siamo entrati nel parcheggio, a tre settimane dall’alluvione è tutto pulito, regolare ed efficiente, come se niente fosse accaduto. A ricordare il disastro di qualche settimana fa c’è solo qualche bava di terriccio e monticelli di sterpaglia non ancora rimossi. Ma sui campi dall’altro lato della strada è tutto un altro spettacolo: estese lingue di detriti languono come un sottile grigio strato sui campi in declivio, una sozza coperta stesa sul terreno tra filari di viti e di olivi.

Ma dov’è il fiume Calore?

Ferdinando Palmers sorride e indica alle spalle della Cantina, verso il basso, verso la vallata, ma a decine, centinaia di metri in linea d’aria.

Non è possibile. L’acqua di un fiume non può risalire a tal punto!

«E infatti l’acqua è scesa dalla montagna», risponde ancora Palmers indicando il Taburno in lontananza.

Abbiamo seguito la strada. Le villette, eredi moderni delle antiche masserie, si sono fatte più fitte man mano che siamo saliti avvicinandoci al gigante Taburno.
Quindi siamo giunti a Solopaca, il centro: è il tipico paesello di montagna con edifici bassi e ben distanziati, strade ampie e pulite. La gente passeggiava. Poi d’un tratto a ridosso di un viadotto, una specie di ponte contro cui si innalzano alcune palazzine, i segni evidenti dell’alluvione, dove una sorta di slargo a ridosso del ponte era totalmente occluso dal fango, arrivando a diversi metri di altezza. Un mare nero solidificato ha creato un vero e proprio tappo, spesso diversi metri.

Non si vedevano le attrezzature della Protezione Civile, nessuna escavatrice dell’esercito, solo pochi mezzi coadiuvati da un pugno di persone armate di pale che lavorano faticosamente per liberare gli spazi dal fango.

«Quando noi volontari venimmo qui, nelle prime ore dopo il disastro, capimmo subito che con le pale avremmo potuto fare ben poco.»

I mezzi dell’esercito dove sono?

«Non si sono visti»

 E quelle escavatrici?

«Sono aziende private. Qua ci sarà da lavorare almeno un anno prima di riportare la situazione alla normalità»

Ci guardiamo in giro sbigottiti, ci affacciamo dall’altro lato del viadotto, del ponticello, e vediamo che quella sorta di slargo che si è ostruito di fango spunta nei campi, in direzione dei vigneti. Le foglie biondeggiano al sole autunnale, in contrasto con le lingue di detriti, rocce, massi e sterpaglie che ancora serpeggiano tra i filari di viti. Ma il fiume Calore è ancora più giù, in lontananza. Non riusciamo neanche a inquadrarlo bene con la macchina fotografica, è solo un solco nel verde della vallata, distinguibile a fatica.

Da dove è arrivato tutto questo fango?

«Da lì!» risponde Palmers, indicando alle spalle delle palazzine verso il Taburno, una sorta di gola, di canale, ora completamente ostruito, la cui origine si intuisce dietro le chiome degli alberi. «Andiamo, saliamo ancora. Le sorprese non finiscono qui purtroppo».

La seconda parte del fotoreportage sarà pubblicata a breve.

By Riccardo Bruno

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