Libri. Recensione di “Stranieri su un molo” di Tash Aw

NAPOLI – Una storia di inclusione ed esclusione, multiculturalismo, stereotipi e migrazione: è questo che emerge dalla penna di Tash Aw nel suo breve saggio autobiografico “Stranieri su un molo”, pubblicato in Italia da “Add Editore”.

Un viso dai lineamenti poco accentuati, dall’incarnato a volte pallido, a volte scuro, che attraversa l’Asia e tutti lo scambiano per uno del posto. Taxisti thailandesi, hostess cinesi, un maestro di un villaggio in Nepal insistono nel riconoscere in quei tratti un conterraneo. E’ il volto del narratore, un malese le cui radici familiari affondano nell’immigrazione cinese degli anni ’20.

Il suo occhio si sposta su un molo, quello che accoglie i suoi nonni dopo la traversata dalla Cina meridionale alla penisola malese. Gli stranieri sono loro, insieme agli altri migranti che si lasciano alle spalle gli strascichi della guerra civile e la piaga dell’indigenza. Sono le identità regionali a salvare i due stranieri sul molo dall’alienazione: uno hokkien, l’altro hainanese, attendono l’incontro con i loro protettori, migranti di vecchia data partiti dalle stesse terre. E’ su questo sentimento di inclusione che si fondano i clan malesi, una forma di aggregazione di migranti che promette di procurare un tetto, un lavoro, la speranza di una vita migliore ai nuovi arrivati.

Tash Aw pone l’accento sull’identità culturale dei cinesi, un popolo da sempre vittima di generalizzazioni improprie. Un cinese si riconosce prima di tutto nella sua provenienza regionale, hokkien, hainanese, cantonese, hakka o teochew, marcata principalmente dal dialetto utilizzato per esprimersi. Tuttavia l’autore non parla solo alla Cina moderna e all’Asia, o all’immaginario occidentale che tende a omologare il tessuto culturale cinese: il suo è un richiamo all’umanità tutta, alla ricerca del rassicurante, dello straniero che non sia troppo estraneo. Nemmeno il lettore italiano fa fatica a sentirsi chiamato in causa quando sente parlare di dialetti, appartenenza regionale e realtà composita.

Il saggio di Tash Aw, in occasione di una chiacchierata con suo padre sul balcone dell’appartamento dei suoi genitori a Kuala Lampur, diventa un’interessante riflessione sulla memoria storica cinese e anche qui il discorso è rivolto a tutti. Si tende a ricordare l’ordine, gli anni d’oro, la belle époque, mentre si sorvola sulle epoche oscure, di crisi. Le macchie sulla storia cinese, la povertà, la colonizzazione, la debolezza, sono fonte di quella che il padre chiama semplicemente “vergogna”, sono passaggi da coprire con la rivendicazione del patrimonio culturale o con il racconto delle antiche dinastie. Il corso degli eventi dell’intera umanità insegna che quando c’è qualcosa di scomodo, da dimenticare, si procede a ritroso verso tempi migliori, distanti e inoffensivi. Si potrebbe dire che i nazionalismi moderni talvolta si servono proprio di una simile visione storica, falsata dall’omissione, che inevitabilmente genera sentimenti di orgoglio estranianti e talvolta esclusivi. Una concezione storica rivista e corretta lascia dietro di sé un punto fondamentale, che accomuna ogni Paese e popolo: l’uomo cade e si rialza, continuamente.

L’estraneità, nel saggio, domina anche la trattazione di un’altra tematica, quella del divario generazionale. Il rapporto con le figure genitoriali, teso tra le aspettative e la realtà, passa attraverso il canale della condizione di migrante, vissuta più dai padri e dai nonni che dai figli. “Lui era un immigrato. Io ero il nipote di un immigrato. Non avremmo mai avuto lo stesso sguardo sul mondo”, così l’autore spiega la polarità tra la sua posizione e quella del nonno. Sotto la lente del telescopio c’è la nostalgia di casa, un sentimento che un migrante non può concedersi. Fattori esterni come l’istruzione e i privilegi penetrano nei rapporti, separano, provocano un disagio incomunicabile.

Tash Aw piuttosto che fotografare l’uomo, lo attraversa. La sua scrittura piana riesce a rivolgersi con franchezza al lettore; non nega le differenze, ma le imprime nella natura mutevole dell’era contemporanea.

Gli anni Duemila non sono solo quelli dell’esclusione, dei muri e dei nazionalismi ciechi: tra la crisi sociale ed economica c’è spazio per interrogarsi sui significati di razza ed etnia, sul valore aggiunto della multiculturalità dei territori. E’ qui che “Stranieri su un molo” diventa il saggio di tutti, che presenta la Cina alla Malesia, l’Oriente all’Occidente, l’uomo all’uomo.

Noemi Orabona

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