Minori con varianza di Genere. A lezione dal Prof. Paolo Valerio

NAPOLI – Venerdì 17 ottobre 2014, dalle ore 09:00 alle ore 14:00, si terrà presso l’Istituto Italiano degli Studi Filosofici di Napoli in Via Monte di Dio 14, il convegno “Minori con varianza di genere: buone prassi e dilemmi” a cura dell’Avvocatura per i Diritti LGBTI Rete Lenford, del Centro di Ateneo SInAPSi Università di Napoli Federico II e la Fondazione Genere Identità Cultura. Tra i relatori del convegno il Dott. Jack Drescher, Prof. di psichiatria al New York Medical College, Training and Supervising Analyst presso il William A. White Institute. L’apertura dei lavori spetterà al Dott. Paolo Valerio, Prof. di psicologia clinica presso l’Università degli studi di Napoli Federico II, direttore Centro “Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti” SInAPSi, oltre che presidente dell’Osservatorio Nazionale Identità di Genere, ONIG e della Fondazione Genere Identità Cultura.

Paolo Valerio da anni svolge ricerche nell’ambito dell’identità di genere, orientamenti sessuali, omofobia, transfobia e intersessualità. E’ autore anche di numerosi volumi e articoli scientifici che affrontano i suddetti temi, a lui abbiamo rivolto le nostre domande.

Quali argomenti saranno trattati al convegno?

«La giornata intende sensibilizzare ad una cultura delle differenze, si affronteranno varie delicate questioni relative ai percorsi di transizione ed al benessere dei minori con varianze di genere che sentono di appartenere o che si comportano come se appartenessero ad un genere opposto al sesso di nascita, così come delle loro famiglie. Al momento, infatti, benché i bambini e gli adolescenti che si presentano per una valutazione e/o trattamento clinico rappresentino una minoranza nella popolazione generale, inferiore all’1%, pongono comunque dilemmi ai pediatri, psicologi, docenti quando entrano in contatto con le istanze che essi portano. Che fare ad esempio quando un bambino si sente femminuccia e vuole giocare con le bambole?  Che suggerimenti dare ai genitori e agli insegnanti? Come intervenire? D’altra parte dal punto di vista scientifico non esiste alcun modo di prevedere nei bambini con varianze di genere se questa sarà presente anche in adolescenza ed in età adulta. L’esperienza clinica lascia presupporre che la varianza di genere, transgenderismo, potrà essere presente in età adulta quando persiste in adolescenza. Nel corso del convegno si presterà anche particolare attenzione alla spinosa questione relativa all’autodeterminazione del minore, alle norme giuridiche e alle controversie presenti nell’ultimo Manuale Diagnostico Statistico che descrive tutte le malattie mentali, il DSM 5.»

E’ consentito al minore di autodeterminare il proprio genere?

«In Italia al momento è possibile per il minore accedere ad alcuni trattamenti endocrini, ma soltanto con il consenso dei genitori. Questi interventi, che vanno naturalmente realizzati con molta cautela, avendo esaminato con particolare attenzione ogni singolo caso, hanno sollevato un delicato dibattito etico, scientifico e sociale. Attualmente una delle principali questioni sulle quali si interroga la comunità scientifica è relativa all’uso di bloccanti ipotalamici. La somministrazione di questi farmaci, che va effettuata prima del sopraggiungere della pubertà, serve a sopprimere la produzione di estrogeni e testosterone per lasciare il giovane in una condizione di neutralità. Viene infatti impedito momentaneamente lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari: nei maschi la comparsa di peli, la crescita dei genitali e altro ancora; nelle femmine la comparsa delle mestruazioni, la crescita del seno e altro, con evidenti conseguenze sul piano concreto: maggiore semplicità per un eventuale intervento chirurgico di riattribuzione chirurgica del sesso, nel caso voglia ricorrere a questo in età adulta come consentito dalla legge italiana. Molto importanti sono anche per questi giovani gli aspetti sul piano simbolico, in quanto possono affrontare in modo più sereno lo sviluppo della propria identità. L’adolescente andrà necessariamente seguito con molta cautela nel suo percorso da psicologi esperti che dovranno di volta in volta valutare con attenzione i rischi e i benefici legati a tali interventi.»

Non sembra un percorso semplice, i professionisti non hanno dubbi al riguardo?

«Molti sono i dilemmi con cui ci confrontiamo: fino a che punto è lecito prendere, d’accordo con i genitori, decisioni così drastiche per un minore? Cosa accade, se crescendo, si pente della decisione presa? Quali possono essere le conseguenze? Sono interventi veramente reversibili? A tal proposito va precisato che il blocco della pubertà è un trattamento temporaneo e, come emerge dall’esperienza di molti Centri, reversibile. Tale intervento può essere portato avanti fino al momento in cui l’adolescente può decidere o di sospendere la terapia ormonale e di proseguire il proprio sviluppo secondo il genere concorde con il proprio sesso biologico o di transitare verso terapie ormonali femminilizzanti o mascolinizzanti a seconda dei casi. Di tutto questo si discuterà nel corso del convegno con l’aiuto di esperti italiani e del prof. Jack Drescher che porterà con sé l’esperienza degli Stati Uniti.»

Su quale sostegno può contare un minore con varianza di genere?

«La società omo e transfobica nella quale viviamo ostacola purtroppo questi minori che sono continuamente vittime soprattutto a scuola di atti di bullismo omo/transfobico. Diventa pertanto necessario che sia offerto loro ed ai loro familiari un sostegno psicologico e interventi che coinvolgano anche il mondo della scuola. Attualmente a Napoli, presso l’Area Funzionale di Psicologia dell’Azienda Universitaria Policlinico Federico II, così come in molti altri Centri aperti presso altre città italiane, sono presenti psicologi che sostengono minori con varianze di genere e loro familiari, affinché non siano lasciati soli ad affrontare tali problemi. A Napoli molto attiva in questo ambito è anche la Fondazione Genere Identità Cultura che offre borse di studio a psicologi impegnati in questo settore.»

Qual è la situazione della scuola italiana rispetto al bullismo omofobico e transfobico?

«Prima di fornire dei dati relativi al bullismo omofobico e transfobico nelle scuole italiane, potrebbe essere utile chiarire i concetti a livello teorico. Quando parliamo di bullismo omo/transfobico intendiamo qualcosa di diverso dal bullismo generale? Negli anni ’70, Olweus, il primo a sistematizzare concettualmente un discorso attorno al bullismo, lo definì come segue: “Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni”. Dunque, le condizioni necessarie affinché si possa parlare di bullismo sono 3: intenzionalità dell’atto aggressivo, sistematicità dell’aggressione e asimmetria relazionale. Le modalità attraverso cui l’aggressività e la prepotenza sono agite possono essere fisiche: aggressioni fisiche, danneggiamenti, furti. Verbali: insulti, derisioni, ingiurie. O psicologiche: manipolazioni relazionali finalizzate in particolare all’isolamento della vittima. Tutte queste caratteristiche si ritrovano anche nel bullismo omo/transfobico. In questo caso, però, come sostengono Platero e Gomez, “gli aggressori o bulli si servono dell’omofobia, del sessismo, e dei valori associati all’eterosessismo. La vittima sarà squalificata e de-umanizzata, e in generale non potrà uscir fuori da sola da questa situazione, in cui possono trovarsi tanto i giovani gay, lesbiche, transessuali o bisessuali, ma anche qualunque persona che sia recepita o rappresentata fuori dai modelli di genere normativi”. Dunque, non è coinvolta solo la giovane popolazione LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender – ndr), ma anche tutti quegli adolescenti che, per qualche motivo potrebbero essere percepiti come omosessuali o gender nonconforming. In sostanza, quindi, l’arma di cui si nutre il bullismo omo/transfobico è lo stigma sessuale che, come ricorda Herek, riguarda la conoscenza socialmente condivisa dello status svalutato che l’omosessualità ha in società. Tutte queste forme di violenza e prevaricazione aumentano di gran lunga la probabilità di sviluppare uno stress psicosociale particolare che riguarda specificamente le minoranze sessuali e di genere. Si tratta del minority stress che, come lo definisce Lingiardi, è uno “stress continuativo, macro e micro traumatico, conseguenza di stigmatizzazione, episodi di discriminazione, casi di violenza”. La letteratura più recente ha ormai ampiamente dimostrato che questa tipologia di stress è fortemente associato a problematiche di salute mentale, quali ansia, depressione, disturbi post-traumatici, fino ad arrivare al suicidio. Ritornando alla specificità della domanda, ovvero alla diffusione del bullismo omo/transfobico nelle scuole italiane, allo stato attuale l’unica ricerca italiana che è stata specificamente finalizzata alla rilevazione di questo dato è stata condotta da Arcigay all’interno di un ampio progetto intitolato “Interventi per la prevenzione contro il bullismo a sfondo omofobico” e co-finanziato dal Ministero del Lavoro, Salute e Politiche Sociali. I risultati analizzati sul campione finale, costituito da 863 studenti italiani con un età media di 17.3 anni, hanno rivelato i seguenti dati: 1) 2/3 degli studenti ha assistito, nell’ultimo mese a scuola, all’utilizzo di epiteti omofobici rivolti a maschi e 1/5 tra essi sente che queste espressioni sono parte integrante della vita scolastica; 2) 1 studente su 13 ha assistito, nell’ultimo mese, ad aggressioni fisiche omofobiche rivolte ad un compagno di scuola di genere maschile, mentre per le compagne di genere femminile sono più frequenti gli epiteti o le prese in giro che non le violenze fisiche; 3) Quasi il 50% del campione riporta di aver utilizzato nei confronti di amici e/o compagni di genere maschile percepiti come gay degli epiteti omofobici e circa 1/4 del campione riporta di averlo fatto nei confronti di compagne di genere femminile; 4) Quasi il 20% del campione, seguendo le caratteristiche del bullo delineate da Fonzi, potrebbe rientrare nei criteri per essere definito “bullo”; 5) Quasi il 4% del campione, al contrario, dichiara di aver subito atti di bullismo omofobico con una cadenza settimanale, potendo così essere categorizzate come “vittime”. Gli autori riportano, in base a quest’ultima percentuale, che in ogni classe, mediamente, è presente uno studente o una studentessa vittima di bullismo omofobico. Questi dati, sicuramente preoccupanti, devono poter indicarci che direzione dare agli interventi di prevenzione e/o contrasto di questa particolare forma di bullismo.»

Quali i possibili interventi?

«Esistono numerosi modelli di intervento, ad esempio quelli che puntano al clima scolastico generale, ai docenti, agli studenti, e così via. In qualità di rappresentante del Servizio Antidiscriminazione e Cultura delle Differenze del Centro di Ateneo SInAPSi dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, sento più appropriato presentare il lavoro che, ormai da anni, portiamo avanti nelle scuole. Cioè quello che tentiamo di implementare è un intervento a 360 gradi che coinvolge l’intero contesto scolastico inteso quale sistema costituito da più anelli tra loro interagenti: studenti, insegnanti, dirigenti, personale non docente, genitori. In quest’ottica di natura prevalentemente sistemica, finalizzata dunque ad intervenire su ogni anello del sistema, prestiamo particolare attenzione contemporaneamente al complesso clima scolastico, tentando di intervenire laddove possono essere percepite delle ‘crepe’. Come? Attraverso una serie di metodologie, quali il counselling di gruppo psicodinamicamente orientato, la peer education, la stesura finale di una “Carta dei Principi” in cui diamo la possibilità di elencare i comportamenti da adottare in caso si verifichino episodi di bullismo omofobico. E questo è vero per le scuole medie inferiori e superiori. Un’area di intervento che ci sta a cuore e che rende il nostro Servizio senza dubbio all’avanguardia, è l’intervento di prevenzione primaria che svolgiamo con bambini molto piccoli, iscritti alle scuole primarie o ai primissimi anni delle elementari. In un’ottica assolutamente preventiva, l’èquipe di intervento cerca di lavorare sulla destrutturazione degli stereotipi di genere, già presenti nella mente dei bambini ed agenti in quelle degli insegnanti e dei genitori. Questi stereotipi infatti potrebbero facilmente portare allo sviluppo dello stigma sessuale e di genere, terreno fertile del bullismo omo/transfobico. Tramite, allora, il racconto di fiabe e narrazioni, i bambini sono posti di fronte a realtà alternative capaci di ristrutturare convinzioni errate e pregiudizi nascenti.»

Quale invece la situazione relativa allo stigma specificamente rivolto alle persone transgender in Italia?

«Rispetto a questo tema è un po’ più complicato fornire dei dati certi e quantitativi, perché in Italia non esistono ancora ricerche specifiche in questo settore. Prima, però, di affrontare le questioni relative alla prevalenza e alla tipologia di violenze subite, è forse anche qui utile chiarire dei concetti. Un modello teorico molto utile per comprendere a pieno il termine “transfobia” è quello di Hill: l’autore utilizza un costrutto più complesso che chiama anti-transgender violence, ovvero violenza contro le persone transgender. Per violenza egli intende un doppio livello: quello interpersonale, ovvero relativo alla famiglia d’origine, al posto di lavoro e altro; e quello istituzionale, ovvero alle scienze mediche patologizzanti e così via. La violenza anti-transgender, secondo l’autore, non è costituita solo dalla transfobia, che rappresenta solo una delle sue declinazioni. Piuttosto, questo tipo di violenza è costituita da 3 componenti tra loro strettamente intrecciate. La prima è il genderismo, un’ideologia indipendente dall’individuo che porta a valutare negativamente tutte le “non conformità di genere”, ovvero tutti quei generi che si discostano da una visione binaria degli stessi. Seguendo tale ideologia, dunque, esisterebbero solo due generi, quello maschile e quello femminile. Tutto quello che da essi si discosta, è malato, perverso, contro natura. Pensiamo ad esempio ai corsi di biologia dove si insegna che gli unici generi, o sessi, esistenti sono quello maschile e quello femminile; bene, questa è un’espressione dell’ideologia del genderismo. La seconda componente è la transfobia, definita quale la forza che spinge a reazioni negative indirizzate alle persone transgender, o meglio come il “disgusto emozionale” provato verso la non conformità di genere. La transfobia dunque è la caratteristica più intrapsichica ed interpersonale della violenze anti-transgender. L’ultima caratteristica, infine, è il gender-bashing, la dimensione comportamentale che consiste nella vera e propria attuazione di violenza. In una recente ricerca che abbiamo condotto e che non è stata ancora pubblicata, intitolata “Trans Life Survey”, abbiamo raccolta una serie di informazioni relative alla violenza subita dalle persone transgender italiane. Siamo riusciti a reclutare 150 persone transgender, 74 male-to-female e 75 female-to-male, ed i primi risultati sono davvero allarmanti. Rispetto, infatti, allo stigma subito, emerge che, a causa della propria identità gender nonconforming, il 17.6% degli MtF è stato licenziato di contro al 30.7% degli FtM; il 71.6% degli MtF ed il 61.3% degli FtM ha avuto problemi nel trovare lavoro; il 21.6% degli MtF e il 36% degli FtM ha avuto problemi nel fittare una casa; il 12.2 degli MtF ed il 18.7% degli FtM ha subito uno sfratto; il 48.6% degli MtF ed il 29.3% degli FtM ha avuto problemi nell’accedere ai servizi di salute generale. Infine, i dati più allarmanti sono relativi agli abusi subiti, emerge infatti che il 91.9% degli MtF e l’81.3% degli FtM ha subito almeno una volta nella vita abusi verbali, il 52.7% degli MtF ed il 61.3% degli FtM abusi fisici, e il 29.7% degli MtF ed il 33.3% degli FtM abusi sessuali. Tutte queste violenze subite sono risultate positivamente associate a problematiche di salute mentale, tra cui ansia, depressione e sfera suicidaria. Si tratta di dati allarmanti che devono far riflettere sulla nostra cultura di appartenenza, ancora del tutto impreparata ad accogliere le differenze e a percepirle come estrema ricchezza piuttosto che come ostacolo.»

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