Salute. Affrontare i sintomi della claustrofobia

NAPOLI – La claustrofobia è una delle fobie più diffuse. E’ di tipo situazionale, ossia provocata da situazioni specifiche come luoghi chiusi o troppo affollati: ascensori, metropolitane, gallerie, cinema. La persona all’interno di questi spazi prova malessere, sensazioni di soffocamento e di oppressione, per evitarle mette in atto nella quotidianità delle condotte di evitamento. Tuttavia, per definire una fobia clinicamente significativa, è necessario che la persona interessata sia consapevole dell’irragionevolezza della paura senza essere in grado di controllarla, con una conseguente compromissione significativa della propria vita sociale, lavorativa o affettiva. Abbiamo approfondito l’argomento con la Dr.ssa Simona Toto, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale.

Quali sono i sintomi e come viene trattata? 

«I sintomi in genere si manifestano quando la persona si trova nella situazione specifica, per esempio quando è in ascensore o mentre attraversa una galleria, e terminano quando riesce a uscire dal luogo chiuso in cui si trova. Tra i sintomi più comuni ricordiamo la tachicardia, la difficoltà di respirazione e un senso di soffocamento; poi sudorazione, iperventilazione, tremore, vertigini, nausea, perdita di controllo, formicolio alle mani e alle braccia, ansia e secchezza della bocca.»

Quali sono gli strumenti generalmente impiegati nella diagnostica? 

«All’interno del colloquio clinico la procedura di assessment principale per le fobie specifiche consiste nel Behavioral Avoidance Test (BAT; Prova di Evitamento Comportamentale, Lang e Lazovik, 1963). Inoltre è utile la somministrazione di un test ad ampio spettro: l’MMPI-2 per identificare eventuali altri disturbi non emersi durante il colloquio, oppure il Cognitive Behavioural Assessment, CBA-2.0 (Bertolotti et al., 1985).»

Esistono indagini di laboratorio per confermare la patologia?

«No. La claustrofobia si può diagnosticare con il colloquio clinico e le procedure di assessment indicate.»

Come viene trattata e quali sono le prospettive future per quanto riguarda il trattamento di questa sintomatologia? 

«Il trattamento sintomatico della claustrofobia, se non è complicato da altri disturbi psicologici, è relativamente semplice e di breve durata, spesso si risolve entro 3-4 mesi e avviene attraverso tecniche di psicoterapia cognitivo comportamentale che prevedono l’esposizione graduale agli stimoli temuti, determinati da una gerarchia accuratamente preparata insieme al paziente in seduta, prima di iniziare l’intervento definito di “desensibilizzazione sistematica”, che garantisce un successo nella stragrande maggioranza dei casi. Poi ci sono altre tecniche di esposizione in vivo, più o meno graduali, che si basano sull’abituazione dell’ansia: se la persona rinuncia a praticare i propri meccanismi di evitamento e si espone alle situazioni che teme per un periodo sufficientemente lungo, avverrà un calo dell’ansia soggettiva e con il tempo un’estinzione della fobia. Rispetto al futuro, staremo a vedere. Certamente, guardando al passato, bisogna riconoscere che negli ultimi 20 anni sono stati fatti passi molto importanti grazie alle tecniche psicoterapeutiche, che hanno garantito un significativo miglioramento della qualità di vita delle persone con disturbi ansiosi.»

Sfatiamo un mito o una falsa credenza? 

«Sì. E’ importante chiarire che il tipo di fobia manifesta non ha alcun significato simbolico inconscio da rintracciare con anni e anni di terapia, e soldi. Le paure specifiche sono legate a esperienze di apprendimento errato involontario, che non è detto che il paziente ricordi. Sostanzialmente si tratta di un processo di associazione, detto condizionamento classico, che avviene tra pensiero e oggetto, che si mantiene nel tempo a causa dei continui evitamenti che il paziente mette in atto per garantirsi di non provare l’ansia.».

Clemente Cipresso

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