Napoli. Presentato il piano di recupero dell’ex Ospedale Militare

NAPOLI – Venerdì 8 giugno, il gruppo locale URBACT di Napoli ha organizzato una festa presso il complesso della SS. Trinità delle Monache, meglio conosciuto come ex Ospedale Militare, per festeggiare il termine del progetto “2ND Chance – Waking up the sleeping giants”. Grazie a questa iniziativa, gli intervenuti hanno potuto informarsi circa il piano d’azione, elaborato nel progetto, per il recupero del complesso.

Musica, cibo e buona compagnia hanno riempito la cornice dell’Ex Ospedale Militare, un luogo spesso dimenticato, abbandonato alla ruggine e alla vegetazione, ma che colpisce e stimola l’immagnazione per la sua posizione strategica e le immense possibilità che può offrire. Sono questi i presupposti infatti che hanno spinto i partecipanti di URBACT Local Group, inserito nel progetto europeo di recupero dei grandi immobili dismessi, i cosiddetti “giganti dormienti”, ad attivare una coprogettazione che si occupasse di restituire questo spazio a Napoli e ai napoletani. Il progetto europeo “2ND Chance – Waking up the sleeping giants” è coordinato, nel capoluogo partenopeo, dall’Assessorato al diritto alla città, ai beni comuni e all’urbanistica del Comune di Napoli.
Abbiamo approfondito l’argomento intervistando Roberta Nicchia, funzionario architetto presso il Comune di Napoli e coordinatrice di URBACT Local Group.

Cosa festeggiate oggi?

«La fine del progetto “2ND Chance – Waking up the sleeping giants”, che coinvolge 11 città europee, di cui Napoli è la capofila. Da tre anni queste città lavorano insieme scambiandosi buone pratiche sul tema del riuso dei grandi immobili urbani dismessi. Ogni città ha sviluppato, a livello locale, un lavoro su un immobile specifico da riattivare: nel caso di Napoli abbiamo lavorato per due anni alla riattivazione del complesso della SS. Trinità delle Monache. In questo mese le 11 città europee stanno presentando il lavoro che hanno svolto, sia a livello internazionale che locale. Oggi noi consegniamo alla città di Napoli e ai suoi abitanti il piano di azione locale per la riattivazione del complesso, frutto di un processo partecipativo durato un anno e sei mesi, che ha coinvolto circa 85 attori locali della città».

Come avete lavorato?

«Ci siamo riuniti nell’URBACT Local Group e abbiamo in primo luogo elaborato una visione di trasformazione condivisa, poi abbiamo sperimentato attraverso usi temporanei i possibili modi di riutilizzo del complesso, quindi abbiamo sviluppato il piano di azione locale: è un piano integrato, strategico, di azioni da realizzare nell’arco di dieci anni a partire da oggi, per raggiungere questa trasformazione che abbiamo immaginato. Noi vogliamo trasformare questo posto in un community hub, incubatore di cittadinanza attiva, ovvero un luogo in cui i cittadini diventano protagonisti della riattivazione grazie a meccanismi di partecipazione attiva».

I punti principali del progetto?

«Abbiamo sviluppato obiettivi strategici all’interno del piano d’azione locale: la rigenerazione della rete ecologica che va dalla collina di San Martino al centro storico, quindi curare il verde, generare nuove aree verdi laddove è possibile, perché mettere in connessione tutti questi spazi e promuovere dei regolamenti di uso e gestione secondo noi è un passo fondamentale per la riattivazione di questo complesso. Questo luogo oggi è una barriera fisica tra vari quartieri, è centrale, ma è diventato quasi invisibile, scomparso dall’immaginario collettivo. Noi vogliamo invece ripristinare una serie di accessi al complesso e renderlo uno snodo attraversabile, uno spazio pubblico che sia una cerniera tra diverse aree oggi segregate, non solo dal punto di vista spaziale, ma anche sociale. Pensiamo alle aree di Montesanto, dei Quartieri Spagnoli e del centro antico e alla loro possibile riconnessione alla parte alta della città, quindi al Corso Vittorio Emanuele, alla fascia della collina di San Martino e del Vomero. Un altro obiettivo strategico è quello di generare nuove forme di economia circolare e della condivisione, ovvero di creare una sinergia tra le persone che popoleranno questo luogo, stimolare la cooperazione per dar vita a delle startup, dei laboratori, delle vere e proprie attività imprenditoriali».

Soddisfatta della partecipazione?

«Sì, la partecipazione è stata molto alta, soprattutto mi sono stupita di quanto sia stata costante nel tempo, perché ovviamente è difficile tenere le persone impegnate per un anno e mezzo in un processo di coprogettazione, anche molto impegnativo, perché le azioni intraprese non sono semplicemente delle idee, ma sono molto concrete e strutturate. Sono molto contenta sia dell’affluenza, della tenuta nel tempo, che del prodotto, un risultato di qualità che presenta spunti interessanti. Si è creata una sorta di comunità locale che si propone di impegnarsi ancora, non solo nel monitorare l’implementazione del piano, ma anche nel partecipare direttamente alla realizzazione. Si propone di trasformarsi in una comunità di eredità, in linea con la convenzione di Faro (Introduce il concetto di eredità del Patrimonio culturale – ndr), quindi di farsi carico anche della cogestione di questo complesso, all’interno di un partenariato innovativo, pubblico-civico, che si propone al Comune di Napoli».

Cosa si può già realizzare?

«Il complesso è abbandonato da tanti anni, non è in buone condizioni, tuttavia tre azioni ci sembrano più semplici da realizzare e possono risultare strategiche per dare un primo segnale alla città e cambiare il rapporto che gli abitanti hanno con questo complesso. Una prima azione è quella di aprire in questo spazio un luogo fisico che diventi presidio di informazione, di monitoraggio e aggregazione. In secondo luogo vogliamo aprire un accesso al complesso dal basso, quindi direttamente da Piazza Montesanto, che consentirebbe di migliorare l’accessibilità fisica e metaforica, per far sì che il centro storico riacquisisca questo spazio. Si può inoltre attivare da subito la sperimentazione del modello di gestione pubblico-civico, quindi fare in modo che l’amministrazione e la comunità locale possano lavorare insieme».

Noemi Orabona

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