Napoli. Le istituzioni carcerarie e la “Cella Zero” di Poggioreale

NAPOLI – Sabato 19 dicembre alle ore 19:00, nell’ambito di una significativa iniziativa ospitata presso lo “Scugnizzo Liberato”, ex carcere minorile sito nel quartiere Montesanto di Napoli, si è tenuto l’incontro intitolato “Il carcere, corpi e dispositivi totalizzanti”. Un dibattito cui hanno preso parte Salvatore Esposito, vincitore del Premio Cinema Campania; Dario Stefano dell’Aquila, dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione; e Nicola Valentino, tra i fondatori della cooperativa “Sensibili alle foglie”.

Attraverso la proiezione di un breve documentario del foto-reporter Salvatore Esposito, il teatro De Filippo del Filangieri si è fatto palcoscenico per le testimonianze di alcuni detenuti che sono stati reclusi nella “Cella Zero” del carcere di Poggioreale: “La Cella Zero è una cella di transito che durante il giorno serve per far passare i detenuti, magari in attesa di un colloquio, ma che di notte si trasforma in una macelleria”.

Dispositivi punitivi volti alla tortura dei reclusi e alla loro disumanizzazione, questo a fare della Cella Zero una macelleria, dove spesso si finiva a pulirsi dal proprio sangue sulle mura. Centinaia e migliaia di storie che dal 1981 al 2013 hanno vissuto nel terrore di essere denunciate. Come dichiarato da Salvatore Esposito: “Vi erano molti più racconti, ma i testimoni non hanno voluto esporsi, eccetto in sei”. E fra questi sei anche la madre di Federico Perna, brutalmente assassinato in quel carcere all’età di soli 34 anni.

Eppure la violenza non è mai stata l’unica protagonista nell’assecondare le politiche di oppressione. La discussione ha permesso di comprendere i numerosi dispositivi totalizzanti che riescono ad avere un potere di controllo all’interno delle carceri, e che non si limitano alla privazione della libertà, ma operano particolarmente attraverso la disumanizzazione, la mortificazione del potere sul corpo.

“Il corpo di un recluso, quando entra nell’istituzione carceraria, viene sottoposto a una serie di torsioni. Il carcere lavora sul tatto dei reclusi, e questi ne subiscono una trasformazione”, attraverso perquisizioni, il rilascio dell’impronta e la foto identificativa, con pratiche che variano dalla conta dei detenuti fino alla totale spersonalizzazione, che ha portato molti carcerati a rifiutare persino l’affetto familiare.

Tal spazio di discussione ha comunque aperto un dibattito, non solo per ricordare doverosamente le vittime di un sistema rovinato dall’obbligo della punizione, ma anche per porsi domande circa lo scopo e la produttività che prospetta la struttura carceraria all’interno della nostra società.
“C’è un sistema, un’economia del penale che si gioca sulla costruzione delle carceri”, afferma Dario, che ha fatto parte dell’Osservatorio nazionale sulle condizioni dei detenuti italiani. “Le carceri sono luoghi dove si sperimentano dei meccanismi che troviamo nei contratti di lavoro.” E’ infatti, così come la classe lavoratrice oramai disgregata in molteplici differenze si è ‘normalizzata’, anche l’unità e la solidarietà fra detenuti ha lasciato spazio all’individualismo. Ciò dà la possibilità alle istituzioni di favorire gli interessi di pochi e modificare il DNA della società verso ideologie sempre più reazionarie e fasciste. Basti pensare che “nella costruzione di un carcere si generano risorse pubbliche che vanno destinate alle imprese edili; un carcere genera occupazione in Italia: circa 50mila agenti della polizia penitenziaria e circa 1.000 fra le figure sociali.”.

D’altronde il carcere come istituzione non insegna ad avere diritti, bensì a sapere che se ne potrebbero avere, a patto che ci si sottometta alla legittimità della divisa.

By Alessandra Mincone

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