L’esperienza di Rosa, ‘Core’ d’Africa

NAPOLI – Rosa Del Core è napoletana, ha 29 anni ed è laureanda in Archeologia e Storia dell’Arte. E’ una ragazza schiva, ma chi la conosce apprezza la sua sensibilità e il suo modo di vivere un po’ oltre gli schemi. Lei racconta di aver sempre avuto il desiderio di andare via dalla sua ‘piccola’ città per raggiungere Paesi lontani dove poter aiutare i bambini: i suoi bambini, in Africa.

Mesi di risparmi e progetti, quest’anno finalmente Rosa ha contattato un’associazione di Roma, la AFSAI, alla quale ha versato una quota di 1.200 euro per pagare vitto, alloggio e spese assicurative, dunque si è sottoposta a tutte le necessarie vaccinazioni e ha acquistato un biglietto aereo per la Tanzania. Partita l’8 marzo, è rimasta per due mesi nel distretto di Arushia, al villaggio di Karatu: lì ha trovato un piccolo orfanotrofio, gestito da un giovane nativo, dove c’erano 15 bambini di età tra i due e i quattordici anni, ma una sola mamma che provvedeva a loro, in tutto. Rosa ha imparato a parlare il linguaggio Swahili, ma prima di entrare nel villaggio è stata due giorni nella grande città di Dar-es-Alam per un corso di orientamento alle tradizioni e le usanze locali: la Tanzania è un Paese a maggioranza islamica.

Rosa racconta che l’impatto con la realtà del villaggio è stato pessimo: «I bambini vivevano come animali lasciati allo sbaraglio» ma sorridendo poi aggiunge: «avevano sempre e comunque un enorme sorriso». I primi giorni per Rosa sono stati disastrosi, ma dopo dieci giorni di dissenteria è riuscita ad adattarsi alle condizioni di vita frugali del territorio, inserendosi perfettamente nella vita quotidiana dei bambini. Con loro ha trascorso tutto il tempo in perfetta simbiosi: «All’inizio ero preoccupata, io non ho fatto studi di psicologia o pedagogia, ma poi ho capito che non servivano, erano i bambini a coinvolgermi. Mi chiamavano Maisha, che  significa vita».

I suoi bambini non avevano nulla. Rosa, oltre ha portare quaderni e bolle di sapone dall’Italia, ha provveduto con i suoi risparmi a comprare magliette; cibo, nell’orfanotrofio i bambini mangiano due volte al giorno un piatto unico di acqua e farina che si chiama “ugali” con un piatto di verdure da dividere in 15; e anche letti, per i quali sono bastati soli 25 euro. E’ diventata in breve tempo parte integrante di una comunità  semplice, molto umana, fatta di rapporti intensi e reciproco aiuto: «Non ho mai avvertito alcun pericolo. Nessuno mai ha cercato di raggirarmi, là nessuno cerca di fregare il prossimo, anche perché non c’è niente da fregare!». Dopo questa esperienza, la visione della vita per Rosa è cambiata, ed è cambiato il suo rapporto con le persone, il valore delle cose, del tempo: «In Tanzania non hanno il senso del tempo, quasi nessuno ha l’orologio. Vivono la vita con calma, con autenticità. Apprezzano quel pochissimo che hanno senza pensare a ciò che non c’è. L’Africa mi manca. Quando sono andata via era come se mi stessi allontanando da qualcosa che mi ha formato, non so spiegarlo, ma è stato un po’ come quando il primo giorno di scuola la maestra ti porta in classe lontano dalle braccia di tua madre».

Rosa ha intenzione di tornare dai suoi bambini, ma con i suoi mezzi. Vorrebbe creare una piccola struttura nel villaggio in Tanzania e al riguardo dice: «A questa gente non serve la pietà, hanno bisogno di cibo, di scarpe. Purtroppo nessuno potrà mai cambiare radicalmente le loro vite, perché questo non è consentito. Nessun arcimiliardario potrà andare a portare ricchezza in questi Paesi, non glielo permetterebbero mai. Ma dare un piccolo aiuto a chi ‘combatte’ sul posto, come fanno le ONG, oppure le associazioni cattoliche, è vitale!».

Il destino di Rosa è dunque in Africa, ma nel frattempo si recherà in Sicilia per aiutare gli immigrati, pur temendo la burocrazia italiana. Da lì l’Africa è più vicina, è più vicino il villaggio di Karatu, i suoi bambini sempre sorridenti nonostante tutto, anche perché forse sanno che Maisha presto tornerà.

By Rosa D’Anna

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