Animalismo. La favola, senza lieto fine, dell’isola di Gorgona. Intervista a Marco Verdone

NAPOLI – Sabato 12 novembre, la sede LAV di Napoli in via Toledo è riuscita finalmente a ospitare l’incontro, da tempo bramato, con il Dottor Marco Verdone, autore nel 2015 de “L’isola delle bestie”, veterinario omeopata o “post-omeopata”, come lui stesso preferisce definirsi, e per 25 anni veterinario presso la Casa di Reclusione di Gorgona, isola carcere situata nel Mar Ligure.

Sembrerebbe un romanzo fantasy, un mito, una previsione utopistica il racconto dell’esperienza dell’isola carceraria di Gorgona, se non avessimo incontrato di persona colui che quella esperienza l’ha vissuta, l’ha immaginata e resa possibile. L’antico carcere di Gorgona, in attività dal 1869, oggi sottosezione del carcere di Livorno, è una delle poche realtà carcerarie italiane in cui i detenuti godono di enormi spazi di libertà, e del contatto con animali non umani. Inoltre è una delle poche carceri italiane in cui, a tutti e 70 i detenuti ospitati, è assicurato l’accesso al lavoro e un salario, seppur di minima entità. Il lavoro in questione è quello agricolo e soprattutto di allevamento e macello.

Al loro ingresso nella struttura carceraria dell’isola, i detenuti vengono guidati nell’acquisizione di alcune competenze, necessarie a svolgere determinate mansioni: il veterinario dell’isola, Marco Verdone, ha guidato tanti detenuti affinché imparassero ad avvicinare gli animali, soprattutto quelli più imponenti; ad approcciare all’animale senza fargli male o farsi male, fino al lavoro vero e proprio da svolgere con gli animali. Il problema, come sostiene più volte Marco Verdone, è capire e stabilire l’idea di un’educazione o rieducazione del condannato, il senso e il valore della pena, il risultato che si intende ottenere. E se scopo del carcere non è produrre formaggi o salsicce, ma persone migliori, allora sarà corretto, rieducativo costringere questi uomini a macabre uccisioni di quelli che sono diventati i loro partner relazionali?

Marco Verdone, veterinario dell’isola per 25 anni, fino al febbraio 2015, passato all’omeopatia rovesciando le visioni di patologia e di cura che la medicina tradizionale gli aveva insegnato, ha tentato una esperienza inedita con i detenuti di Gorgona: appoggiato dall’allora direttore del carcere Carlo Mazzerbo, iniziò il progetto “L’isola che c’è” e il macello dell’isola smise di funzionare. Durò oltre un anno, fino al febbraio 2015. Accadeva persino che i detenuti decidessero di assegnare dei nomi propri ai singoli animali: probabilmente uno dei più alti esempi dei risultati conseguiti. Se da una parte l’esperienza carceraria spesso diventa segnata da processi di deumanizzazione, di brutalizzazione dei prigionieri, relegati a bestie, ridotti a numeri, qui accade che gli uomini non solo non si sentano bestie, ma considerino le bestie stesse degne di soggettivazione, di riconoscimento. Al riguardo abbiamo rivolto alcune domande a Marco Verdone.

Qual è il senso, l’idea di fondo a sostegno del progetto “L’isola che c’è”?

«Gorgona non è solo un’isola, un’isola-carcere, ma un’esperienza innovativa, unica, da tutelare nella sua globalità. In particolare, dopo 25 anni di lavoro come medico veterinario che si è dedicato alla cura della popolazione animale allevata, insieme al contributo di altre persone, ho sviluppato un percorso di riflessione critica etico-rieducativa che rende oggi Gorgona un bene comune e dove si sarebbe potuto realizzare un laboratorio di buone pratiche nella relazione umano-animale. Questo passaggio era stato preparato dalla pubblicazione prima di una “Carta dei diritti degli animali di Gorgona” e poi da inediti “Decreti di Grazia” solo, purtroppo, per alcuni animali. È stato prodotto molto materiale a sostegno dell’idea semplice, ma per certi versi eretica, che la violenza sugli altri animali, che in modo arrogante definiamo “da reddito”, e che si esprime nella sua massima forma tra le mura di un macello, non è compatibile con una vera rieducazione del condannato che dovrebbe essere ispirata ai principi della pace e della nonviolenza. Il progetto “L’isola che c’è” vuole proprio ricordare e realizzare con fatti concreti il superamento di un pensiero vecchio dove l’umano esercita potere sugli altri animali e, almeno in un carcere, far valere l’idea che la presenza di altri esseri senzienti deve promuovere relazioni co-evolutive, educative, terapeutiche. Anche per questo motivo tra le varie iniziative intraprese con il sostegno di associazioni nazionali e locali: Lav, Essere Animali, Ippoasi, il 18 giugno scorso è stato realizzato un importante e partecipato presidio a Livorno, a testimoniare e comunicare il superamento della macellazione in questo carcere speciale, il cui motto, “Via il macello da Gorgona”, campeggiava sui cartelli esposti dai manifestanti accorsi da varie parti d’Italia. Il vasto materiale documentale prodotto è disponibile sul sito della Comunità Interspecifica Ondamica.»

I risultati della cooperazione tra uomini e animali?

«La relazione tra umani detenuti e animali allevati è sempre stata osservata in termini di benefici reciproci. Lo scopo del carcere non è produrre cibo da altri esseri senzienti e in particolare da quelli con i quali si è stabilito un rapporto di fiducia e di amicizia. La riflessione introdotta è stata centrata sul rispetto dell’alterità animale e del superamento del nostro potere politico su altri soggetti deboli. La conoscenza diretta di questi “compagni di detenzione” ha permesso di osservarli sotto un’altra luce. È stato superato il concetto di numero a favore di quello di nome, di mandria a favore di individuo, di macchina per produrre cibo a favore di soggetto portatore di interessi. Abbiamo vissuto molte storie significative che hanno consentito di riflettere sul cambio di prospettiva e di sentirsi uniti in un unico ed empatico flusso vitale. Tutto questo però non è avvenuto in modo scontato e ha richiesto molto impegno, affrontando svariate difficoltà e pregiudizi soprattutto da parte di chi gestisce tutta la struttura. Le persone detenute, in virtù anche del loro vissuto di sofferenza, hanno mostrato in più occasioni sensibilità verso questi temi seppur culturalmente distanti. Ma l’esperienza ci ha insegnato che un percorso guidato e sostenuto per affrontare nuove conoscenze e sperimentare nuove modalità relazionali stava dando i suoi frutti. E forse proprio per questo che è stato bruscamente interrotto.»

Lei fu trasferito, dopo poco anche il direttore del carcere che supportava orgogliosamente l’esperimento. Furono un caso questi allontanamenti da Gorgona?

«L’esperienza di Gorgona affonda le radici negli ultimi 25 anni. Il progetto a cui si fa riferimento rappresenta il tentativo di chiudere un cerchio che si stava definendo sempre più, grazie alla collaborazione di tante persone che hanno interagito con Gorgona e alla disponibilità di un direttore che ha sempre sostenuto l’apertura dell’isola verso l’esterno, mostrando una disponibilità fuori dal comune. Grazie a Carlo Mazzerbo sono stati elaborati i cosiddetti “Decreti di Grazia”, sono state ridotte le riproduzioni degli animali e sospeso per oltre un anno le macellazioni. Il suo incarico poi è terminato e l’isola è rimasta sotto la direzione di Livorno.
L’aspetto più importante che tengo a sottolineare è sempre il desiderio di creare una collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria, stabilendo un dialogo che porti a realizzare un progetto unico al mondo. Un vero percorso di rieducazione nonviolenta attraverso relazioni non performative con gli animali ed escludendo in modo definitivo e consapevole le attività di macellazione, dirette o indirette, dagli orizzonti carcerari. Su questo migliaia di persone hanno già espresso il proprio sostegno e un Appello firmato da autorevoli figure del mondo giuridico, culturale, mediatico, esprime quanto necessario, utile e sia intraprendere questa strada. La profondità del messaggio è testimoniata da questi primi firmatari. Si tratta di un’opportunità che la politica e i nostri Amministratori pubblici dovrebbero cogliere e farne punto di eccellenza etica.»

Oggi Gorgona come funziona?

«In Gorgona, che da alcuni anni ha perso la sua autonomia ed è diventata sottosezione del carcere di Livorno, le persone detenute continuano a lavorare, ma non so esattamente per quante ore vengano retribuite. Sappiamo che hanno ripreso le attività di allevamento e di macellazione ignorando le nostre sollecitazioni. Con pazienza stiamo cercando di proseguire con la via del dialogo e della valorizzazione degli aspetti positivi che una strada nonviolenta potrebbe generare».

Camilla Esposito

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